
Questo prologo molto meta era per dire che I Giardini della Luna come inizio sono ostici, ma non solo: dove persino Tad Williams osa fare melina per un paio di centinaia di pagine, Erikson trasforma tutto questo intero volume in un setup, in uno scoglio da aggirare per leggere l’intierezza del Libro dei Morti di Malazan. Non ti stordisce con l’esposizione come Eco, non affronta argomenti completamente tangenti e inconoscibili, per quanto solidi, come Tolkien, né tantomeno prepara il campo per l’azione centellinando le stranezze in un crescendo straziante come Williams.
Erikson di sua spontanea volontà ha immaginato una storia, l’ha giocata a GURPS con i suoi amici per vent’anni, e poi ha deliberatamente scelto un momento della stessa in cui poteva descrivere il maggior numero di inizi e indizi e ha iniziato a scrivere senza parlare di quello che è successo prima, senza dare più di un paio di tracce indistinte di quanto accadrà poi. In una prospettiva di terza onniscente vediamo quello che succede durante un assedio e poi durante un tentativo di eversione paramilitare in un mondo in cui le persone che conosceremo da vicino sono tutte normali, o addirittura scartine, mentre lo sfondo è così High Fantasy che non solo l’intervento degli dei deve essere considerato a livello tattico, strategico e logistico durante una campagna militare, ma si deve anche studiare fino a livello di politica cittadina che gli dei non sono sempre la cosa più grossa e pericolosa del circondario.
Ve lo dico con passione: io non sono un fan dell’High Fantasy. Detesto la maggior parte dei setting in cui specie non-umane ma umanoidi vengono presentate al lettore con faciloneria, mi dà l’orticaria la magia che livella le città e fa il caffé (apprezzo di più se fa solo una di queste due cose, e mai l’altra). Malsopporto il personaggio silenzioso ma intenso di cui tutti tessono costantemente le lodi. Io miagolo come un gatto infuriato alle tre di notte di fronte a una battaglia tra supereroi divini-magici, specie se combattuta a furia di onde energetiche descritte minuziosamente.
Gardens of the Moon riesce a mettere tra le sue pagine tutti questi elementi, e lo fa nella maniera ermetica sopra descritta, e comunque non mi ha fatto schifo. Lo so, non è la dichiarazione d'amore più sperticata della storia. Vi prego, non ditemi che è il primo, non ditemi che evolve, cambia, migliora, trasformerà del tutto la mia vita. Lo so. Malazan è figo, ha dei fan intelligenti e appassionati, è scritto da un autore bravissimo. Sarà pure tutte queste cose, ma resta comunque una storia dedicata a un tizio alto due metri e trenta con una spada magica gigantesca legata dietro la schiena, un nobile ma crudele ma onorevole ma spietato super occulto semidio preumano che viene costantemente descritto come il parto OGM di una relazione tra Drizzt do’Urden e Goku. Ed è anche lo stesso personaggio che Erikson giocava durante una campagna di GURPS, cosa che francamente mi fa urlare con la faccia schiacciata nel cuscino. Malazan è probabilmente una cosa bellissima che amerò con gli anni, ma Gardens of the Moon è un libro solo molto buono e dannatamente ben scritto, che nobilita con grande stile cose che per me sono difficilmente palatabili e che reputo di cattivo gusto.
Molti accusano Erikson di essere troppo raffinato nella costruzione delle proprie trame. In Gardens of the Moon non lo è — mi dispiace, questo scrittore non è Jack Vance né tanto meno Gene Wolfe. Ogni singola difficoltà di scorrimento nella narrazione deriva dal fatto che Erikson NON dice le cose, ma le riserva al futuro. Tutto quello che succede è comunque facile da evincere dal contesto, e birba chi dice il contrario: per me è solo disattento. Potremmo dire che a livello strategico, Gardens of the Moon è un libro facile. A livello tattico, ovverosia scendendo nei dettagli di come Steven Erikson scrive, è un lavoro ESTREMAMENTE raffinato e dottrinale, e in un certo senso meccanicamente ribelle. Per fare un esempio, il suo uso costante di sottintesi è — almeno in questa fase della sua vita autoriale, che ricordiamo era appena iniziata — una sorta di continuo sputo in faccia a chi gli ha insegnato a scrivere dicendogli che i sottintesi sono il male. Il suo uso del ritmo è più tipico della narrativa in forma breve che del romanzo di ampio respiro, un altro effetto io credo della sua educazione formale nell’ambito della letteratura contemporanea americana: capitoli sono molto lunghi e formati come racconti. Gli elementi interni di ciascuno di essi poggiano gli uni contro gli altri sostenendosi, e ci sono richiami all’ambiente e alle tematiche che procedono costanti fino al terminare delle scene. I dialoghi sono ottimi, le scene sono ben orchestrate, i combattimenti passano dagli elementi fantastici alla crudezza senza incespicare poi troppo.
Il mio parere finale è che si tratta di un ottimo libro, evidentemente un campo di battaglia autoriale e ancora più evidentemente un’opera prima. La scelta di dare attenzione alle piccole persone e a quelli che alterano il metaplot in piccole cose che hanno grandi ripercussioni è assolutamente geniale. Detto questo: ho oceani di narrativa fantastica da leggere, e questo non è proprio il tipo di storia che più mi appassiona. Quando sarà il momento, ci tornerò.
Immagine: l'oscenamente bellissima cover dell'edizione francese di Marc Simonetti
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