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"The Obelisk Gate" (The Broken Earth #2) di N.K. Jemisin, recensione italiana

No, ecco, se dovessi iniziare ogni singolo parere su un “secondo libro” citando Caparezza e la sua canzone “Il secondo secondo me”, la storia diventerebbe ripetitiva molto in fretta. Nel fantasy ci sono così tanti seguiti che certe volte mi chiedo se ci siano più seguiti che primi libri.



C’è comunque una certa gravità e pressione nei secondi libri, un fenomeno narrativo ben noto. Se i primi libri di una serie sono scritti con un atteggiamento che sembra strillare “me ne frego” più di un gerarca sovrappeso durante il ventennio, i secondi libri sono generalmente molto deliberati. Una deliberatezza che spesso non fa bene alla narrativa: abbiamo casi in cui il panorama visto dal lettore viene espanso vertiginosamente, altri in cui l’esposizione la fa da padrona, altri ancora in cui i POV vengono moltiplicati e affidati a personaggi indesiderabili, o le storie vengono complicate, e vengono iniziate plotline principali e secondarie a iosa. Sono tutte cose che sulla carta potrebbero esser buone, in realtà, ma sicuramente più difficili da gestire per un autore che non è più tanto libero e spensierato.
The Obelisk Gate cade in tutte queste trappole narrative e le schianta a testate, per uscirne insanguinato e vittorioso. La situazione del primo libro viene accantonata brutalmente attraverso la logica della narrazione (sì, è vero: tutto si risolve, ma si risolve serendipicamente e non per volontà e azione della protagonista). Vengono aggiunti altri POV utili allo scopo, ma non complicano né diluiscono la qualità dei conflitti. La protagonista è costretta a sorbirsi un numero enorme di paragrafi di esposizione, e non ce n’è uno che sia noioso. Il mondo viene ampliato ancora e ancora, tanto spazialmente quanto cronologicamente, cosa che inietta altri conflitti nella trama senza che essi vengano lasciati lì appesi: c’è una risoluzione soddisfacente a quasi tutte le condizioni iniziali, o a quelle introdotte in questo nuovo volume.

La protagonista, Essun, subisce un’evoluzione, non solo nel senso Digimonico del termine (oh, è sempre fantasy. O Sci-fi. O SFF+) ma anche in quello caratteriale. Cresce meno di quello che speravo, ma ha modo di affrontare e risolvere problemi con un una maggiore autonomia narrativa del survival mode modello bambina che scappa da villaggio bombardato dal napalm del primo volume. Essun è un’adulta, ha vissuto più vite, sa affrontare le crisi ed è una persona completa, salvo che per una incredibile carenza d’accettazione dell’umana empatia, che peraltro è culturale e condivisa da tutti i personaggi che incontra: le relazioni sociali, qui, sembrano molto programmate, e accettate in base ad assiomi piuttosto che attraverso legami emotivi. E non è una svista dell’autrice, è quello che è. I Fremen di Dune sanno sopravvivere con poca acqua. Gli abitanti del pianeta di Essun sanno sopravvivere con il minimo dell’attaccamento al prossimo possibile a un umano. Non ci sono dubbi, insomma, che Essun sappia gestire l’amore, talvolta contrastato dagli eventi, che prova verso le sue persone care. Niente triangoli io, lui, l’altro, qui. Il serio problema è che gira e rigira, il fatto che tu possa ignorare la sete non vuol dire essere  più bravo a non bere. Il fatto che tu ignori il calore non vuol dire che tu non possa essere cotto vivo. Ugualmente l’aridità emotiva non fa niente per proteggerti dal trauma, dalla delusione, dalla depressione, dalla tua crudeltà per quanto necessaria. I Fremen muoiono di sete come tutti gli altri esseri umani. Essun si ritrova del tutto contorta dalle sue carenze e dalle sue perdite, e ha una scarsissima capacità di accettarlo, di rendersene persino conto, e questo a mio modesto avviso la sfalda con maggiore prontezza di quanto avverrebbe con una persona più empatica.

Il world building in Obelisk Gate è molto più chiaro, ma con la chiarezza s’accompagna una certa prolissità, che è un piacere perverso, perché titilla tutte le nostre nevrosi da raccolta di informazioni sui mondi fantastici. Il setting è crudo e crudele, è un mondo che sta finendo con pochissime speranze di cambiare la mano di carte che i pochi umani sopravvissuti si trovano a dover giocare. La posta in palio è altissima, ed Essun è l’unica - così pare - ad aver accesso a un mazzo più grande, per quanto strapieno di gatti neri.

The Obelisk Gate ha vinto il premio Hugo come il precedente The Fifth Season. È un libro diverso e differente, è un libro in cui si possono vedere le impalcature che l’hanno costruito con chiarezza, si possono riconoscere con facilità le zone problematiche e dire senza remore che è un SECONDO LIBRO, vittima della “sindrome” che descrivevamo all’inizio. Il fatto che trascenda i suoi problemi e le sue limitazioni, che non sia davvero danneggiato dalla sua natura di “risoluzione del precedente+setup del successivo”, attesta la grande bravura della Jemisin. The Obelisk Gate è piazzato al centro di una ragnatela di scelte narrative appiccicose e difficili.

Non sono stato capace di metterlo giù, neppure quando mi trovavo in disaccordo con le suddette scelte narrative. The Broken Earth è un ciclo di bellissimi romanzi, che sta segnando la storia della narrativa di genere.

Immagine: dettaglio copertina del libro (da un'immagine di Shutterstock o di un altro servizio similare, credeteci o meno)

Postato in origine su GoodReads

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